RIFLESSIONI DAVANTI A UN CADAVERE



Mi rendo conto di quanto questa società sia basata sul "produci-consuma-crepa", quando mi reco in casa di riposo.
Sono lì seduto su una sedia mentre fisso una sala piena di anziani intenti a mangiare. Una folla di capelli bianchi come neve, mani con pelle di carta velina, che tremando portano il cibo alla bocca; il tutto avvolto da quell’odore di anziano misto ospedale e cibo cotto.
Se ne stanno buoni buoni nei loro pannoloni, strizzati nelle loro calze contenitive, seduti su sedie a rotelle che danno loro l’illusione di poter fuggire, vedere il mondo, ma non è così.
Nonostante siano più che adulti sono fragili e delicati come bambini piccoli. E questa è la cosa che fa più tristezza, il fatto che un bambino non si renda conto della propria condizione, mentre loro sì, e questo li distrugge a livello emotivo.
Se dovessimo schematizzare l'esistenza in un grafico, sarebbe una piramide che parte dal basso quando nasciamo, raggiunge la vetta durante l'età adulta e poi inizia a scendere, giù, sempre più giù, fino a toccare la base da cui era partita. Chiudendo la figura, tornando a ciò che eravamo (nulla). Morendo.
Mentre li guardo, in certi momenti non bado più ai loro colpi di tosse, al rumore delle posate nei piatti, alle parole delle infermiere. Tolgo l'audio alla scena. I rumori mi distraggono, mentre io voglio poterli osservare con attenzione. Percorro con lo sguardo i loro volti, le loro mani, i loro corpi. Li studio, li spoglio e inizio a chiedermi chi siano e chi fossero. Cerco di capire chi sono stati, scrutando la figura sbiadita che è rimasta della loro giovinezza.
Immagino che il signore col parkinson davanti a me, che ora fatica a portare il cucchiaio alla bocca, da giovane fosse un omone forzuto che scaricava bancali in un magazzino. Lo guardo negli occhi e percepisco un rimasuglio della fiamma di ciò che era. Non si è ancora spento del tutto, ma la sua luce è sempre più debole, il suo fuoco si sta affievolendo sempre più. E poi si spegnerà lasciando cenere che il vento del tempo spazzerà via.
Vedo la signora con la demenza che tratta una bambola come fosse sua figlia. Conosco la tragedia del suo non aver potuto aver figli, nonostante ne desiderasse. La immagino, bella, giovane, circondata da uomini che la corteggiano. Felice, innamorata, madre. Invece ora è sola, mentre accudisce una bambola con l’amore che non ha mai potuto dare ad un figlio vero.
Guardo il signore burbero che impartisce ordini, non li sento, l’audio è muto; ma vedo l’espressione del suo viso, le labbra che si muovono, le mani che gesticolano. Era un militare da giovane. Lo immagino davanti al suo plotone, impartire ordini, impettito nel suo abito inamidato e senza una piega!
Era temuto e rispettato.
Ora invece l’unica cosa che può fare è lamentarsi debolmente del fatto che non voglia la minestrina ma il riso.
Nessuno che scatta ai suoi ordini. Nessun rispetto. Si sente invisibile.
Vedo tutte queste persone e mi chiedo se avrebbero mai pensato di finire in questo posto, ma soprattutto in questo modo.
Sono stati messi al Mondo, la società li ha plasmati, li ha fatti crescere secondo il proprio bisogno, li ha sfruttati, ne ha succhiato la polpa e la linfa vitale. Tutti quei giorni in cui erano costretti a lavorare invece di perseguire i propri sogni, invece di viversi i propri cari. Poi un giorno si sono svegliati ed erano vecchi e stanchi; troppo stanchi per ribellarsi, troppo vecchi per inseguire i propri sogni.
E’ un po’ come quando ci si fa una spremuta, una volta consumata tutta la polpa, la buccia viene buttata nella spazzatura, nell’attesa che arrivi il giorno della raccolta e scompaia per sempre. Idem loro, la vita li ha consumati, e ora sono lì, in attesa di andarsene, di scomparire.
Alla società non servono più. Consumano più di quanto producono. Sono un peso e quindi via, rinchiudiamoli in un edificio, diamogli tre pasti al giorno, un po' di televisione, medicine a iosa e aspettiamo che crepino.
Ma che non bevano alcolici, che non fumino e che mangino solo cibo lesso e magro.
Mi chiedo che senso abbia passare gli ultimi anni vivendo con uno stile di vita da malati senza vizi, per morir sani.
Davvero la vita alla fine è questo? Esser usati e considerati fino a che si è utili, per poi cadere nel dimenticatoio. Un po' come quei giocattoli che da piccoli non usavamo più e che rimanevano anni sul fondo della cesta. Ogni tanto scavando per puro caso ce li trovavamo davanti, li prendevamo in mano per qualche minuto, ricordando i momenti felici passati insieme, ma poi li lasciavamo cadere di nuovo. Quanta gente che vedo far la stessa cosa con queste persone, vengono una volta all’anno a trovarli, solitamente durante le feste, per esser a posto con la propria coscienza. Passano un'oretta a parlare, senza in fondo dir nulla; perché parlare non significa necessariamente comunicare, e poi se ne vanno, lasciano cadere il loro “giocattolo vecchio”. Si giustificano dicendo che hanno una vita, una vita che corre veloce. Non possono rallentare, chi rallenta o peggio ancora, si ferma è perduto. Allora corrono via, e portan con loro solo i ricordi di ciò che era. Mentre se ne vanno però non si voltano, perché sanno che non potrebbero sostenere lo sguardo bisognoso di calore umano della persona anziana che li ha amati e che c’era per loro e ora avrebbe bisogno del contrario.
Questa è la nostra società. Una società che ci ruba la cosa più preziosa, il tempo. E quando alla fine si ha tempo, non si hanno più persone con cui passarlo. Allora si aspetta di morire, si aspetta il giorno in cui non ci si sveglierà più. Tutti piangeranno davanti a quella salma, a quel corpo privo di vita che non è altro che il contenitore di tutto ciò che abbiamo fatto e di ciò che eravamo.

 Alcuni saranno divorati dal rimpianto per non esserci stati, altri inizieranno ad avere paura, perché realizzeranno che presto o tardi, faranno la stessa fine. Verranno dimenticati in qualche casa di riposo, e la gente si ricorderà di loro solo il giorno del funerale.

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